Il lago della Duchessa

Insolito, confuso tra neve e nuvole, invisibile, solo da percepire.


Il lago della Duchessa, il laghetto nel cuore del Velino, a forma di arachide, sensibile alle giornate chiare in cui risponde agli azzurri del cielo e a quelle scure autunnali in cui si ammanta di toni bruni più scuri delle praterie che lo circondano, il lago che nonostante le sue indubbie bellezze naturalistiche ha conosciuto la sua massima notorietà per questioni di cronaca nera ai tempi delle Brigate Rosse e del sequestro Moro è oggi la nostra meta. Certo non è un’idea originale trattandosi da sempre di una meta privilegiata per gli escursionisti del Lazio e non solo; anche d’inverno non accenna a perdere il suo fascino viste le frotte di escursionisti che abbiamo incontrato. Gli abbiamo fatto visita pochi giorni fa, in una giornata dai contorni dubbi e invernali, per questo meno “consona” per visitarlo, nutrivamo l’intima speranza di goderci uno scenario diverso, insolito, magari indimenticabile. In questo momento, sulla soglia della primavera, il generale inverno, dopo aver trascurato a lungo la nostra penisola, sta provando a farsi perdonare ripagando gli Appennini con abbondanti nevicate, molti sono e sono stati i week end perturbati e ventosi che non invogliano a salire di quota; il lago della Duchessa è notoriamente il punto più basso di una conca posta in fondo ad un’ampia valle, non troppo elevata, intorno ai 1750 mt di quota, anche se è contornato da vette belle ed importanti è lontano dai grossi pendii ed anche in caso di bufera o grosse perturbazioni le linee di fuga per il rientro sono logiche e intuitive, in buona sostanza quelle di fondo valle. Se le condizioni meteo qualche dubbio potevano ancora lasciarlo, il desiderio di Marina di vederlo anche nella stagione invernale ha abbattuto ogni remora e lago della Duchessa è stato. Da Cartore in inverno le vie per salire sono quasi obbligate, per la val di Teve è quasi impossibile visto il rischio di slavine e comunque i grossi dislivelli e la lunghezza che il percorso comporterebbe, la stretta e ripida Val di Fua l’avevamo percorsa svariate volte, volentieri mi sarei risparmiato i ripidi sentieri che la caratterizzano; un chilometro oltre la val di Fua, quasi parallela a questa si stacca sui fianchi del Morrone la Val di Cesa, che era per me terreno inviolato, a maggior ragione per Marina. Non mi aspettavo stravolgimenti di scenari, solo una valle più ampia, ma almeno avrei percorso un sentiero nuovo. La discesa l’ho pensata invece per il vallone del Cieco e la val di Fua, certamente più diretta e veloce. E’ andata così: con comodo arriviamo a Cartore intorno alle 8 del mattino, la prima sorpresa è stata la stradina di collegamento dalla provinciale al borgo perfettamente asfaltata. Una striscia di asfalto un po’ fuori posto tra questa fitta boscaglia ma certamente agile per arrivare all’imbocco del sentiero in pochi minuti; è dotata di dossi dissuasori per la velocità ed anche di un rilevatore di velocità elettronico, manca il velox ma non è detto che nella buona stagione non venga adottato, potrebbe essere il solito metodo per rientrare nelle spese (speriamo non mi leggano e che non prendano l’idea). Al parcheggio accanto allo splendido borgo ristrutturato siamo i primi ad arrivare, un camino di una delle casette ostello fuma copiosamente, il borgo è vivo e frequentato. Prendiamo il sentiero a sinistra del parcheggio, quello accanto al caseggiato e sotto l’enorme faggio. Poche centinaia di metri in salita e sulla sinistra evidente inizia il sentiero per la val di Fua; un cartello del parco e dei segnavia ne suggellano l’inizio. Sullo stesso cartello c’è anche l’indicazione per la val di Cesa, continuando nella stessa direzione sulla carrareccia; da qui in avanti, come dicevo, per me e Marina sono passi nuovi, ed anche se lo scenario è pressoché lo stesso è un motivo in più per essere motivati. Smaniosi di iniziare a salire, dopo poco meno di un chilometro sulla destra prendiamo un ampio sentiero molto sconnesso e molto ripido, alcuni nastri sui rami degli alberi e un ambiguo simbolo su un albero lo elevano a percorso da seguire; lo prendiamo anche se ero convinto non si trattasse della sterrata/sentiero che sale per la Val di Cese. Dopo venti minuti di ripida salita, quando l’attacco violento ci faceva sentire il peso della precarietà di forma tipica dei periodi invernali intercettiamo una più comoda carrareccia; era la conferma che avevamo imboccato una sorta di scorciatoia, col senno del poi anche evitabile. Con pendenza costante e a tratti ripida, con tornati molto frequenti la strada si avvita dentro l’ampia valle, ora di qua, ora di là dal fosso; il fondo è appena disconnesso, si procede spediti e, dopo un po’, ad onor del vero, anche annoiati. Lo scenario non è dei più suggestivi, la valle è ampia ed immersa nella boscaglia, conoscere questo percorso è però un dovere anche se già so che ripeterlo non sarà nei piani futuri. Intorno a quota 1400mt troviamo la prima neve della giornata, nel giro di poche centinaia di metri il sottile strato discontinuo diventa un manto alto cinque centimetri; inizia nel frattempo a spirare un vento leggero e teso che tra i rami degli alberi intona un concerto di sibili e fruscii, come onde di un mare lontano ci accompagnerà da qui in avanti; prende anche a nevicare, piccoli fiocchi duri e sparati come proiettili ma non ci infastidiscono gran che. Dopo un’ora e mezza arriviamo nei pressi della radura di Praticchio del Tordo, il sentiero per un lungo tratto spiana e si fa più interessante, la spianata è un bel momento, ariosa, immersa nel bosco, è dominata in alto dai costoni più bassi della cresta del Morrone, persi nella caligine di una nevicata, probabilmente lassù più intensa. Marina ha indossato le ciaspole, io affondo di buoni dieci centimetri, ma come sempre fin tanto la neve non mi arriva ai polpacci sono restio ad usarle, mi sono cordialmente antipatiche, il più delle volte in tutte le mie escursioni invernali rimangono solo un peso inutile sulle mie spalle. Dopo l’ampia radura la carrareccia sempre più sepolta da uno spesso strato di neve riprende a salire virando con un’ampia curva a destra; si tralascia il sentiero che al centro del curva procede diritto verso i costoni del Morrone, poco oltre si tralascia anche un’altra ampia carrareccia che obliquamente si accosta da sinistra. Il sentiero/strada è ora immerso in un bosco di faggi dagli alti fusti; non ci sono segnali lungo il percorso, ad un ulteriore incrocio in cui la strada continua diritta prendiamo a sinistra, una stretta doppia curva ci riporta ad un ulteriore tratto diritto fino quasi a scavallare l’evidente dorsale che abbiamo davanti. Non ci fidiamo dei diversi incroci non segnalati, tiriamo fuori la carta ma non traiamo grandi suggerimenti, la traccia sulla carta aggira la dorsale che scende dal Morrone , e sfila verso Sud Sud-est per congiungersi al vallone del Cieco in località le Caparnie. La nostra direzione è giusta ma i dubbi permangono e come se lo sentissimo all’ulteriore incrocio sbagliamo direzione, invece di andare a sinistra in salita, come sarebbe stato giusto, continuiamo diritti facendoci illudere da una grande apertura del panorama che giù in fondo si intuiva appena. Siamo sbucati in un grande spianata proprio sulla dorsale, davanti il Murolungo e sotto il vallone del Cieco, eravamo ancora alti, lo scenario era familiare ma non era quello giusto. Marina allo slargo aveva forse intuito una traccia che girava stretta intorno alla dorsale, io più prepotente e ragionando di pancia avevo già deciso di andare incontro al vallone del Cieco per non correre rischi di giri a vuoto. Le solite discussioni per la scelta fatta (a mente fredda dovevo dare ragione a Marina, di certo avremmo continuato e incrociato più facilmente la carrareccia che arriva alle Caparnie), ma intanto lentamente e di traverso continuiamo a scendere leggermente verso l’imbocco della grande valle là davanti. Incontriamo un tratto di rocce sconnesse e poca neve o neve scomposta, Marina è costretta a togliersi le ciaspole; ci infiliamo in mezzo ad un piccolo gruppo di cavalli al pascolo, ci guardano e non ci degnano affatto di attenzione particolare. Pochi momenti fuori sentiero sul fianco diruto della montagna e riprendiamo una traccia tra gli alberi pulita e libera da ostacoli, una traccia di sentiero a tutti gli effetti, priva di segnaletica ma inequivocabile, che scivola veloce e agile fin quasi al primo rifugio delle Caparnie. Siamo all’imbocco dell’ampia valle del lago, il vento si infila più impetuoso di prima, ora soffia violento e purtroppo anche freddo. Siamo alti sopra il sentiero che arriva dalla val di Fua, come i binari che si confondono in una stazione il nostro improvvisato sentiero ci si raccorda dolcemente, poche decine di metri sopra sfila la carrareccia che abbiamo abbandonato e perso. Il panorama si allarga, grossi e contorti faggi ci sfilano a fianco, rubiamo qualche foto al freddo ma dobbiamo fare in fretta, siamo troppo leggeri di indumenti. Concentrati sopportiamo le raffiche del vento che sta diventando davvero insopportabile, il tetto del primo rifugio a poche centinaia di metri ci fa da sollievo, ormai è solo una questione di pochi minuti per trovare riparo. All’interno del rifugio Panei troviamo quattro ragazzi, anche loro infreddoliti e quasi intenti a ripartire dopo essersi riassettati. Noi mangiamo qualcosa, ci copriamo per difenderci dal vento che da qui al lago di certo non ci darà più tregua e dopo pochi minuti ripartiamo anche noi. Marina ciaspolando, io imperterrito a nutrirmi della sana antipatia verso queste tavolette, seguendo (per fortuna) le orme dei quattro che ci stanno anticipando di poche centinaia di metri. Dal rifugio al lago il dislivello è poco, nemmeno cento metri, leggeri saliscendi caratterizzano la valle, ma oggi sembra un altro ambiente; il vento, infilandosi nella valle e provenendo da Est, dal lago, raccoglieva il freddo dei ghiacci e spirava così violento tanto da sollevava vortici di nevischio da terra cui era inutile opporsi, si infilavano ovunque avessimo un infinitesimale lembo di pelle scoperto; il cielo si andava incupendo ancora di più, ogni tanto riprendeva a nevicare, nevischio da sotto e da sopra, siamo andati avanti a testa bassa e stretti nei gusci; quasi al lago il cielo si è abbassato ancora diventando incolore e senza profondità come tutto il mondo che avevamo attorno. Un po’ si soffriva ma come incorreggibili masochisti si era felici, consapevoli di vivere un momento quasi unico. Dentro i piccoli fossi della valle ricoperti di neve, salendo e scendendo le piccole dune che compongono il territorio, facendoci sfilare il Murolungo che tra le nuvole assumeva colori e striature mozzafiato raggiungiamo l’ultima “duna” che preannunciava la fossa del lago. Siamo saliti seguendo sempre le orme di chi ci precedeva fin sopra la duna, da dove poco oltre si riprendeva a scendere; si scopriva malapena l’Uccettu’, il Costone si confondeva nelle nuvolaglie più grigie, lì sotto, sotto una piatta distesa di neve, sotto una immacolato catino bianco al posto del lago. Nessuna forma del lago, nessuna linea, anche una sola depressione a marcarne l’esistenza, solo una piattissima, immacolata distesa di neve a ricoprire la ghiacciata superfice. Surreale e affascinante sempre questo angolo di Velino, anche in questa giornata, con tutte le linee morbide che si confondono nella inconsistenza del nevischio e della foschia. Il vento sibila, è lui il padrone di questo posto oggi, ci sbatte ma nessuno ha voglia di andarsene. Tutto è confuso, a tratti le nubi scendono ancora di più, si addensano e tutto diventa uguale in ogni direzione, non c’è profondità, non c’è più qualcosa da guardare, è solo possibile percepire e vivere di insolito. Bellissimo. Poi delle nuvole meno dense portate dal vento regalano striature di tonalità diverse all’uniformità del paesaggio, una sorta di chiari e scuri che si inseguivano. Scatto un mare di foto, le penso inutili per rivivere quelle sensazioni che vivevamo, le scoprirò invece intense e realistiche una volta tornato a casa. Mentre i ragazzi che erano li con noi si avventuravano “sopra” il lago in una pericolosa passeggiata noi abbiamo ripreso la via del ritorno, non prima di aver volto uno sguardo “languido” verso la cima del Murolungo, dove minuta si percepiva la croce; sarebbe stata dura e complicata da raggiungere in queste condizioni ma immensamente intenso e gratificante. Col vento alle spalle si filava in discesa che era un piacere, abbiamo incrociato una coppia di escursionisti che salivano ma bardati come eravamo ci siamo degnati solo di un saluto; dai post di FB della sera verremo a sapere che ci si conosceva, ma lì, in quel frangente nessuno aveva anche la sola voglia di togliersi il cappuccio per dichiararsi in un saluto più amichevole. Poco oltre il rifugio Panei Marina deve togliersi le ciaspole, la neve è solo un velo ed anche poco consistente, quando il sentiero imbocca il vallone del Cieco ed entra nel bosco è ancora più bagnata e già in fase di scioglimento in mille rigagnoli melmosi. Come sempre ripidissimo ed oggi ancora più scivoloso questo sentiero fa filare veloci, fino alla strettoia, alla piccola cengia dove con un eccesso di prudenza è stata posta una grossa catena di assicurazione. Il breve tratto con ripidi e leggermente esposti tornanti sancisce l’inizio della val di Fua, che più basa e probabilmente più riparata dalle intemperie, favorisce una incipiente fioritura di Bucaneve che ci accompagnerà fino in fondo. Dal vallone del Cieco il vento è sparito, in val di Fua ci siamo dovuti alleggerire, a Cartore era addirittura caldo. Una giornata che ci ha fato vivere una variabilità assoluta; dalla primavera all’invernale e inospitale clima dell’alta montagna e poi di nuovo alla primavera. Basta mettersi un paio di scarponi, uno zaino in spalle con un minimo di attrezzatura e queste esperienze possono essere per tutti, costo del biglietto zero, ritorno emozionale altissimo.